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Mustafa Sabbagh</title>
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SOLO SHOW<!--title-->
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the format contemporary culture gallery _ milano
cura _ guido cabib
post scriptum _ antonio mancinelli
“L'immagine occidentale, naturalmente, è quel tableau, quella raffigurazione e composizione, bella in sé, che deriva dall'istituzionalizzazione della prospettiva e della raffigurazione drammatica alle origini dell'arte occidentale moderna, con Raffaello, Duhrer, Bellini e gli altri ben noti maestri. È conosciuta come combinazione di dono divino, grande abilità, profondità d'emozioni e ingegnosa pianificazione; gioca con la nozione di spontaneità, di inaspettato. Il creatore di immagini magistrale pianifica ogni cosa in anticipo, ma è sicuro che, a dispetto di tutta la preparazione, il risultato sarà qualcosa di fresco, mobile, leggero e affascinante”. Jeff Wall
Mustafa Sabbagh presenta a Milano una sua personale, con opere di grande e medio formato ovale, di cui alcune inedite appositamente prodotte per il suo solo show, ed un video. Attraverso un sapiente uso della ritrattistica e dei paesaggi, Sabbagh mette in scena un'etica creativa delle relazioni amorose. Si è tentati di qualificare il suo lavoro come autobiografico, date le numerose allusioni dell'artista alla propria vita, ma questa idea appare incompleta. Nelle sue immagini, non racconta la storia di un individuo, ma quelle di una coppia, di una coabitazione amorosa. L'incontro e l'unione (tutti i dittici); la conoscenza dell'altro (i ritratti); la vita in comune (le nature morte); la separazione, l'assenza, l'abbandono, che include tutte le immagini dei paesaggi. Nella sua globalità, le immagini di Mustafa Sabbagh si articolano proprio intorno a un progetto autobiografico, ma è una autobiografia condivisa, che stimola in chi le osserva una relazione intima.
Attraverso l'uso, quasi costante nei suoi ritratti, di costumi di ogni epoca, gli stessi vengono risemantizzati. I costumi divengono feconde occasioni visive per intraprendere avventure linguistiche. Sabbagh propone diverse ipotesi di ri-sacralizzazione. Elabora un'estetica del post Sublime: il suo è un sublime tormentato, ansioso ed affascinante. Acquisisce bustini seicenteschi, pezzi di scarpe, guanti di lattice, gorgiere ed accessori di tutti i generi, per far nascere sintassi inattese. Recupera materie povere per evocare angosce. Utilizza scarti per ironizzare sulla civiltà dei consumi. Tratta “i costumi e gli abiti” come un'epidermide da aggredire e sceneggiare. Nelle sue immagini si accumulano detriti: li enfatizza, li mimetizza, li contamina. Nei mondi che costruisce, gli oggetti sono parte integrante del linguaggio, e l'uno e l'altro sono considerati vettori di relazioni con l'Altro. Certo, questo riciclaggio costituisce anche una scelta estetica: dimostra che le strutture artistiche non si limitano mai a un gioco di significazioni, ma l'essenziale resta quest'orizzonte di fusione, al quale mira Sabbagh, questa esigenza di armonia e coabitazione che abbraccia anche il suo rapporto con la storia dell'arte.
Nell'osservare le immagini dei landscape, dei notturni, delle spiagge, delle foreste, dei cieli e delle nebbie, ed anche dei suoi nudi, ci troviamo di fronte ad espressioni pure dell'assenza dell'Altro, ma anche a momenti di pura astrazione fisica e mentale, perché Mustafa si concentra su emozioni inconsce. Quando ci si trova di fronte alle immagini di Mustafa, la contemporaneità si appalesa in tutta la sua fragilità e violenza, con nostalgie, lacerazioni, e drammi, ma anche di fronte al desiderio dell'abbandono, del silenzio e della crescita interiore.
UN TRITTICO PER MUSTAFA _ di Antonio Mancinelli
PAESAGGI DI CARNE
E affrontiamola, una buona volta, questa maledetta/benedetta Bellezza. Emigrata dalla dostoevskijana «La Bellezza salverà il mondo» alla bretoniana ««La bellezza sarà convulsa o non sarà», quella coltivata da Mustafa Sabbagh è racchiusa nel paziente contenitore di una perfezione sofferente. Come se il presente, essendo un deposito di errori dove si mormorano affermazioni oscure e imprecise, dove si accumulano immagini crudeli e immotivate, eiaculate da ogni forma di media per produrre infine, indifferenza, per lui non possa essere altrimenti raffigurato se non attraverso un'impeccabile mise en scène di carne e alberi. Immortalati secondo una precisa e puntuale liturgia dove la figura umana è un paesaggio allo stesso modo di un mare in tempesta, ne esprime lo stesso quoziente emotivo. Mi piace pensare che le immagini di Sabbagh, quando incontrano il loro autore, lo salutano con deferenza e cortesia: sanno quanto gli sono costate in termini di fatica, costruzione e progettazione. Conoscono la cultura del loro firmatario, sanno da quali lunghi e contorti rami discenda la loro composizione formale: la ritrattistica fiamminga, la pittura nordeuropea e quella del Rinascimento nordico, la morbosità di una sessualità che non si esplicita mai in un chiaro invito all'ammiccamento erotico, ma lo congela in un raffinatissimo disagio. E contemporaneamente, l'atlante epidermico compilato dall'artista – che spesso fotografa epidermidi, muscoli, segni dei vestiti sulla pelle – assimilano il corpo a un paesaggio. E viceversa. Gli umani si sdoppiano, come in uno specchio, nei dittici dove un soggetto si riflette nell'altro. Nei dittici un soggetto riflette l'altro ed entrambi si trasformano in una dimensione umana, vegetale, aerea, atmosferica di un solo, unico tema declinato in cose, persone, oggetti: il tempo che trascorre, il dialogo intimo che ognuno di noi intrattiene con la morte, la conversazione tra una vanitas contemporanea fine che restituisce modernità alle vanitas e rompe la sintassi tradizionale della “bella fotografia” per dare spazio a un'angoscia di stile. Quella di Sabbagh si trasforma quindi in una Bellezza eccentrica, multiforme, che giunge al punto critico di fusione tra i generi, tra le ispirazioni, tra i messaggi che intendono emanare. Un grimaldello, un passepartout per entrare nel reame della follia della quotidianità.
LA FOLLIA COME METODO
Quando Mustafa mi ha fatto l'onore di chiedermi di posare per lui, l'immagine tra le tante che più ci è piaciuta è stata quella in cui mi ha cortesemente chiesto: «Fa' gli occhi da pazzo». Questo episodio – ribadisco il plurale: ci è piaciuta – ha provocato un sottile turbamento, che tocca sia l'emotività sia l'intelligenza della dimensione, della prospettiva della fotografia. Non possiamo guardare alle sue immagini senza avvertire la suprema sensibilità, l'esattezza e insieme l'inafferrabile ed evasiva macchinazione della sua anima, l'artigianale (lavora con una sola fonte d'illuminazione e non usa nessun tipo di fotoritocco) lavorazione dell'incubo, la razionale immaginazione che governano queste “creazioni”, intendendo cose che, appunto, prima non esistevano. Sabbagh sembra aver capito che oggi l'unica vocazione della fotografia è documentare una discesa agli inferi intimi e collettivi, pur mantenendo un rigorosissimo impianto formale. Discendere agli inferi significa organizzare il disordine, sovvertire le regole già imparate, digerite e assimilate per poi ributtarle fuori in una mappa emozionale che sia un itinerario mai visto prima di un viaggio dentro un mistero. In questo senso, Mustafa è un grande manipolatore: solo i profeti, i deliranti e i deliberati maneggiatori della tecnica, possono reggere l'inaudita pressione di un pensiero autonomo che si può esprimere per immagini. Al mare delle tenebre lui arriva non per intuizioni stravaganti, ma per fermi e calcolati progetti, giacché solo chi sa dove sono quelle tenebre può osare di affrontare il viaggio, e poi andare avanti. E Sabbagh conosce anche che senza quell'oscurità della e nella mente, oggi la fotografia non avrebbe più senso. Eppure, si potrebbe obiettare: gli sfondi sono neutri, immersi in un blu disperante eppure asciutto, non si vedono mobili, suppellettili, elementi che possano distrarre. Perché parlare di disordine, allora? Perché quello che a lui interessa è creare confusione nello spettatore, indurlo a osservare e a fotografare con gli occhi della mente le sue tenebre interiori. Di fronte all'esattezza delle immagini c'è la magmatica reazione di chi guarda: ed è quella che mette insieme allucinazioni e idee pacate, progetto e catastrofe, la buona educazione con l'affronto al buon gusto. O a quello che alcuni si ostinano a definire “buon gusto”. L'amore dell'eccesso, dell'accumulo, del macabro, dell'angoscioso non è che un modo estremo ed elegantemente violento di esorcizzare la reale pazzia: quella che inizia là dove finisce il perimetro delle sue opere.
(IN)VISIBLE MONSTERS
Una categoria complessa, quella del "mostro", che si rivela saldamente intrecciata al discorso sulla "diversità" e sulla "differenza". Nelle foto di Sabbagh spesso lo sguardo viene (an)negato da una quantità di oggetti – forchette, maschere, elmi, piume, gorgiere, paraocchi, materie di uso quotidiano – che riduce le persone a passivi monumenti alla poetica di un sogno sognato in un momento di lucidissima allucinazione. Sono poetici mostri, da osservare secondo l'etimologia classica del nome. Il termine latino monstrum indica essenzialmente un segno divino, un prodigio, e deriva dal tema di “monere”: avvisare, ammonire. Il mostro, nel significato originario, è l'apparire, il manifestarsi, il mostrarsi improvviso di qualcosa che viola la natura ed è ammonimento e avvertimento per l'uomo.
Sabbagh campiona e remixa, come un dj estetico, simboli e oggetti di una cultura della moda di cui confonde codici visuali e destinazioni d'uso. Un'estetica cruda e brutale ottenuta seguendo accuratissime sovrapposizioni di cose sul corpo e sul viso, che reinventa il corpo, lo esalta, o gli dà una nuova cornice. Manda così nel mondo soggetti mostruosi, enigmatici, inquietanti, grotteschi, pronti per una passerella nell'inconscio. Soggetti-oggetti che ridefiniscono la relazione tra essere e apparire, per approdare a una definitiva uguaglianza di senso, dove la forma equivale alla sostanza. Mandando all'inferno qualsiasi codice estetico codificato, l'artista rimanda a un mondo mitico, macabro, sorprendente: ovvero tutto ciò che la sua arte è destinata a voler suscitare. I suoi ritratti sono diversi da quelli consueti ma a loro volta sono diversi dall'orrore in senso stretto. Sabbagh riesce a penetrare nel terribile e corrucciato regno in cui orrore e sublime reggono e leggono il mondo – un mondo che è qualsiasi cosa fuorché “di moda”. Sono teneri mostri, appunto: ammonitori di una civiltà che glorifica se stessa e non si rende conto delle macerie di cui si vanta, si adorna, si inorgoglisce. Sono uomini e donne il cui compito è essere ambasciatori di un elegantissimo disastro che è lì lì per giungere. E per raggiungerci. Da ammirare come spettacoli di furibonda meraviglia, ma da cui trarre anche un possibile insegnamento: quello di scoprire i veri mostri che vivono dentro e intorno a noi. Magari in abito firmato o in giacca e cravatta.
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Explicit Adult: This rating applies to graphic and explicit content (depicting nudity, sexuality, violence
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in images and language) that is appropriate only for adults, and is not suitable for viewers under the age of 18 years old. It
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